Il libro prosegue con il racconto di come il vecchio Santiago riesce a prendere un pesce, un pesce gigantesco che è la prova della sua vincita dopo ottantaquattro giorni di attesa. La battaglia è dura, lui è vecchio e solo, i suoi mezzi sono limitati per portare a termine l’impresa. Non è preparato a concludere un’impresa di questa portata: il corpo, la mano, la schiena l’abbandonano mentre sta cercando di uccidere il pesce e ce la fa. Ma l’impresa non è ancora finita, non siamo ancora alla conclusione, c’è tutto l’ambiente intorno che impedisce la fine felice e piacevole dell’impresa.
Alla fine, Il Vecchio Santiago fallisce. Nonostante riesca a pescare il pesce grande, fallisce e, dopo giorni di navigazione, una sera stanco e sfinito con i mezzi di pesca rotti o persi in mare, torna alla sua capanna a mani vuote.
Dott. Shakoorirad nella sua lettura del libro accenna a un progetto brillante del fotografo Tracey Moffatt che alle olimpiadi di Sydney 2000 ha fotografato chi arrivava al quarto posto. Un punto importante da accennare riguarda proprio il fotografo: Tracey voleva essere scelto come fotografo ufficiale di questi giochi olimpici e ha portato avanti ardentemente questa sua volontà e richiesta ma ha fallito. Invece di assistere da vicino ai giochi e alle gare, le guarda dalla televisione e comincia a registrarne alcune. Ad un certo punto comincia a seguire chi arriva quarto, fissa l’immagine e acquisisce la foto. Il suo album “Fourth” nasce così.
Queste foto colpiscono per la loro sincerità, senza alcun filtro fanno vedere un essere umano nell’istante in cui comprende che ha fallito. Un essere umano che ha faticato buona parte della vita ed è prescelto tra migliaia e milioni di persone per gareggiare a quel livello ma poi finisce senza nome e senza volto tra migliaia e milioni di comuni mortali. Queste foto fanno vedere la faccia del fallimento prima che arrivi. “Non fa niente”; “Nulla viene tolto dal tuo valore”; “L’importante è partecipare” e altre parole e consolazioni preconfezionate.
La vita è anche questo, il mondo è questo. Non si può sfuggire al fallimento e l’abbiamo vissuto tutti: a quell’esame per cui avevamo studiato tanto e gli scherzi che ci hanno fatto le emozioni; quel colloquio per il lavoro dei nostri sogni in cui abbiamo balbettato e non si è vista la nostra brillantezza; quella riunione con il top management dove avremmo potuto essere super prestanti e meritarci la promozione che desideravamo e invece la memoria ci ha tradito e non ci siamo dimostrati all’altezza e via dicendo.
Bisogna sapere che il punto più importante in tutto questo è chiedersi: “Ma io sono capace di affrontare il fallimento? Ho il coraggio di accettarlo? Ho l’onestà di guardarmi bene per accogliere la sua responsabilità e capire i miei processi mentali e le azioni che hanno portato al fallimento?”.
Ricordiamoci: questo è l’unico modo che ci rende capaci di uscirne e il semplice detto che ogni sconfitta è inizio del successo non è vero. Anzi, ogni fallimento se non accolto e analizzato bene, può solo essere l’inizio di altri e numerosi fallimenti. Si vince per abitudine e vale lo stesso anche per perdere. Chi non sa accogliere il fallimento e arrivare alle sue radici dentro di sé, molto probabilmente proseguirà con lo stesso approccio perdente.
E vi confido un segreto: nella vita privata e nella vita lavorativa non mi fido mai di chi non ha mai fallito. Chi non ha mai fallito è il primo a non sapere se è in grado di rialzarsi o meno, figuriamoci gli altri. Io scommetto sempre su chi ha pianto per ogni fallimento, ha assaggiato la sua amarezza massacrante ma si è rialzato.
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