Ognuno di noi soffre a proprio modo, è risaputo che il dolore è personale.
Ma se dovessimo disegnare il volto del dolore, come lo realizzeremmo? Ci siamo mai chiesti: “Se fosse possibile disegnare i lineamenti del dolore che forma gli daremmo? Che struttura?”.
Molto spesso si usano metafore per descrivere la sofferenza attribuendole caratteristiche
fisiche o usando immagini che rimandano ad oggetti e persone. In ogni modo, però, il
dolore lo manifestiamo anche se non apertamente, con la nostra comunicazione, tramite il
nostro corpo il quale tradisce quello che non vogliamo far trasparire a voce: gli occhi gonfi,
i capelli spettinati, lo sguardo perso, il toccarsi i capelli o un punto del corpo o l’essere
sovrappensiero. Tutti segnali che ci fanno capire che chi ci sta vicino ha qualcosa che lo
tormenta, ma non abbiamo mai un’idea chiara di come rappresentarlo questo tormento,
questo dolore.
Per i giapponesi invece sì: il dolore ha un volto, e si traduce con il termine kijō:
un concetto che esprime il mostrarsi forti, il non cedere mai completamente alla
disperazione. I giapponesi sono portati a non mostrare i propri sentimenti, non certo per
una mancanza di emozione ma perché la loro cultura insegna a mettere davanti a sé
l’altro, a non far prevaricare il proprio dolore su quello altrui, perché in una situazione di
disperazione il dolore di uno deve essere comunque rispettoso del dolore di tutti gli
altri. Questo però non vuol dire che la persona non stia soffrendo profondamente, perché
anzi chi si mostra forte di fronte a un grande dolore non è insensibile agli eventi ma sta
soffrendo profondamente solo che, per non straziare chi sta vivendo un altro dramma, sta
trattenendo la propria disperazione.
Questo concetto non è molto lontano da quello che viviamo anche noi. Pensate, per
esempio, ad una situazione che sono sicura sia successa a chiunque di noi: quando
piangiamo per qualcosa che è accaduto a noi e la persona che abbiamo di fronte
nell’ascoltarci piange, persino più forte, con singhiozzi e parole strascicate … cosa
facciamo? Ci fermiamo. Questo perché il nostro dolore in quel momento non è più solo
nostro, le nostre lacrime non sono solo più nostre, ma c’è un’altra persona che sta
manifestando una sofferenza superiore anche alla nostra e di conseguenza ci ritroviamo a
doverla consolare ribaltando completamente la situazione iniziale.
Proprio per questo motivo è bello pensare che il termine kijō sia composto da: il ki che ha
dentro lo spirito, l’indole, l’animo, il sentimento e che deriva dall’espressione “Come stai?”
e il jō che è la lunghezza delle cose e della vita e insieme anche la forza e la solidità e che
deriva dall’espressione “Andrà tutto bene vedrai”.
"Più qualcuno si mostra forte, maggiore è la compassione che merita”.
Bellissimo articolo Giorgia, grazie! Ci aiuta ad andare oltre il giudizio possibile se ci troviamo di fronte a persone "apparentemente" fredde e impassibili e a chiederci una volta ancora cosa ci sia oltre. Grande insegnamento di empatia!